Romilda Del Pra è tornata alla casa del Padre

Cari amici, con grande dispiacere vi informiamo che Romilda Del Pra, conosciuta da moltissimi di noi come la “poetessa della Val Codera”, ci ha lasciati venerdì 8 gennaio 2010 al termine di una lunga malattia. Romilda non ha mai avuto incarichi o un ruolo ufficiale all’interno dello scautismo e della nostra Associazione eppure ne è stata una parte essenziale, una testimone che l’ha accompagnata in tante fasi fin dagli anni più bui, un’amica per intere generazioni di scout. Era nata nel 1919 e ha vissuto quasi tutta la sua esistenza in una valle remota e raggiungibile solo a piedi: la Val Codera. Conobbe gli scout durante il periodo di clandestinità, partecipò a molte delle loro attività, divenne un punto di riferimento, una vedetta, la pastorella che portava di nascosto le lettere dei partigiani rifugiatisi sopra Codera al Comitato Nazionale di Liberazione a Milano. Raccontava lei stessa quell’esperienza con queste parole cariche di poesia: ” Ai primi giorni di settembre 1939, quando sul mondo stava per scatenarsi la grande tragedia che fu la seconda guerra mondiale e noi giovani, cresciuti all’ombra del credere, obbedire, combattere, sentivamo che doveva esserci qualcosa di più valido, che guidasse il nostro andare incontro alla vita, risale il mio primo incontro con lo scautismo clandestino, ovvero con le Aquile Randagie di Baden. In Val Codera non c’erano controlli e potevano svolgere le loro attività senza timori. Vicino al fuoco di bivacco di questi giovani incominciai a trovare delle risposte alle mie domande; si parlava di popoli fratelli, di un mondo migliore nella giustizia e nella pace. Vicino al Rifugio Brasca intorno al fuoco di bivacco di questi scout, ascoltavo le loro speranze, le loro esperienze e i loro progetti per il domani e, quando la fiamma si stava spegnendo in un paesaggio quasi irreale, vicino alle montagne, la luna illuminava la Sfinge, il Ligonchio e l’ultimo guizzare della fiamma illuminava i volti pensosi degli scout, era più che naturale che l’inno nato quassù sgorgasse nostalgico accorato alle loro bocche. La luna delle vette dice del tempo che già fu, del tempo che sarà e questa speranza guidò negli anni più bui il cammino degli scout”. L’incontro con gli scout fu per Romilda uno stimolo di promozione umana e di presa di coscienza. Dopo la guerra fu una delle prime donne ad entrare in politica assumendo anche responsabilità amministrative a livello comunale e testimoniando l’impegno delle donne cattoliche. Ripeteva: ” Se la donna può raddrizzare qualcosa lo deve fare”. La sua casa a Stoppadura, vicino a Bresciadega è stata il punto di sosta per centinaia di campi scuola: a tutti offriva da bere, una poesia, un racconto. La sua amicizia per gli scout è stata grandemente ricambiata: anche in questi giorni e in queste ore sono tantissime le lettere provenienti da tutta Italia di Capi, Rover e Scolte e persino di Esploratori e Guide che chiedono notizie di lei. Come avviene per le persone che hanno ben vissuto è nel momento del distacco che si percepisce più nitidamente la grandezza. Di lei, persona semplice e umile, si può ben dire che fu pietra scartata da costruttori che divenne testata d’angolo. Grazie a lei anche il cammino dello scautismo e l’importanza che può rivestire nella vita dei nostri ragazzi ci appare più chiaro.

Grazie Romilda.

Vi invitiamo ad associarvi a noi nel ricordarla con affetto, a dire una preghiera per lei e nel chiedere al Signore la Grazia di essere sempre all’altezza, nel nostro servizio, di interpretare quell’ideale alto di scautismo e guidismo al quale Romilda ha sempre creduto.

Buona Strada

Alberto Fantuzzo e Paola Stroppiana
Presidenti Comitato Nazionale AGESCI

2 Comments:

  • luigi dal lago / Rispondi

    Cara Romilda,
    ti penso lassù insieme con Baden immersa nella luce, piccola grande donna che ci hai insegnato a guardare in alto e in avanti, sempre…- Grazie della tua gentilezza, dell’ospitalità sobria e signorile pur nell’estrema semplciità della tua casa, grazie della forza che emanava da tutta la tua persona.
    Ti ricordo e ti ringrazio anche a nome di tutti i preti che hai accolto nella lunga serie dei campi A.E. di Colico-Codera!

  • Bruno - Puma Esploratore / Rispondi

    Carissimi Scout del Padova 9,

    un amico, mio Rover ora padre di famiglia, che fa anche servizio in FSE, mi ha mandato la notizia della morte di Romilda.

    Io, durante il “Tre foglie” (era un’attività nazionale fatta tra Clan, noi eravamo con altri due della Lombardia e dell’Emilia, era il ’93 o ’94) ebbi la fortuna di conoscerla personalmente, dopo averne conosciuto la figura attraverso al lettura de “La neve e il rosaio”: il libretto che narra la storia delle Aquile Randagie, di quel gruppuscolo di Scout milanesi che non si piegarono alla violenza del fascismo ma continuarono a fare attività (rischiando l’arresto) con i propri ragazzi nonostante lo scioglimento del Movimento imposto dal regime.

    Per le uscite avevano bisogno di una valle nascosta: la Val Codera andava benissimo, ancora oggi (pardon, ancora nel ’94, ma non credo sia cambiata la situazione) la si raggiunge solo a piedi in mulattiera. E di qualcuno che prestasse loro il prato per i Campi e le attività (il problema c’era già allora, anche se era molto più grave di oggi, come vedete), rischiando del proprio senza chiedere nulla in cambio: e trovarono Romilda.
    Venne la seconda guerra mondiale, poi la guerra partigiana, e molte delle Aquile Randagie crearono un movimento, collegato alla Resistenza, specializzato nel far fuggire nella vicina Svizzera persone in pericolo: soprattutto adulti e bambini ebrei (ne “rapirono” addirittura uno dall’ospedale, arrivando pochi minuti prima della Gestapo), fuggitivi e perseguitati vari. Avevano una taglia sulle loro teste, ma i fascisti e i tedeschi non sapevano chi fossero. Romilda continuò ad appoggiarli, così come aveva cominciato ad appoggiare i Partigiani che ogni tanto si rifugiavano da quelle parti. Finita la guerra, restò contadina di montagna, ma divenne anche poetessa piuttosto apprezzata e fece un po’ di politica locale, nelle file della Democrazia Cristiana di allora.

    Casa sua nel ’94 era una baita (ne vedete uno spigolo nella foto che mi hanno mandata allegata) di quelle classiche, piccola, di pietra nuda, con il microscopico ingresso reso multicolore dalla parete completamente ricoperta di fazzolettoni provenienti da ogni dove. Mi pare di averne lasciato anche uno noi, del “Mosnigo 1°”, ma non ricordo bene. Su tutti svettava (nel senso che era messo da solo e più in alto di tutti) quello nero-verde con il simbolo del Clan della Torre del “Milano non-ricordo-quale”, quello delle Aquile Randagie e di Don Ghetti.

    Ci aveva parlato del suo incontro con gli Scout di allora, poi della guerra e dei suoi stenti, poi dei partigiani, anche di quello con la faccia da bambino e la testa spaccata in due da una fucilata a pochi metri da un suo campo. Ma l’aveva fatto con pacatezza, senza alcun odio per tedeschi o fascisti. Eravamo nel praticello di fronte a casa sua: non ci saremmo stati tutti dentro. Mentre ci raccontava di quei tempi duri, un passante (era estate, qualche raro escursionista passava) si ferma, ascolta un po’, poi prende la parola e ci racconta qualcuna delle sue vicende da partigiano: nome di battaglia “Milan” (“Se non ci credete chiedete al Cardinal Martini: mi conosce benissimo”), aveva partecipato all’azione di liberazione dal carcere di Enrico Mattei (quello che poi avrebbe fondato l’AGIP e sarebbe morto in un misterioso incidente aereo), a scontri a fuoco, anche a rapine per finanziare i combattenti. Durante una di queste descrive – me lo ricordo come fosse ora – quasi con tristezza un soldatino tedesco arrivato sulla moto mentre lui usciva da una banca rapinata, con le mani impicciate dai sacchetti dei soldi: “Mi giro correndo giù per la scala e lo vedo, lui mi punta il mitra e preme il grilletto. Sento click, ha fatto cilecca. Ho alzato il mio mitra. Se avesse alzato le mani arrendendosi non gli avrei sparato, ma lui in quel momento cerca di prendere la pistola dalla fondina. Ho sparato una raffica, uccidendolo. Che altro potevo fare?” E guarda attorno, mi pare come cercare di incontrare nei nostri occhi una conferma alla sua scelta, o un’approvazione… Mi aveva dato netta la certezza che, anni dopo, l’aver ucciso un uomo finisce col pesare sempre e comunque sulla coscienza, anche se l’hai fatto per tua stessa difesa, o in guerra, o anche l’avessi fatto per la causa più giusta del mondo e della storia. Quinto: non uccidere.
    Eravamo tutti rimasti d’accordo, la sera, nella nostra percezione che il suo raccontare era anche uno sfogarsi, un cercare di alleggerirsi di pesi caricatisi su anni e anni prima, decenni prima. Rover e Scolte di allora sono ancora convinti che fosse tutto combinato, che l’avessimo chiamato noi e fatto arrivare lì fintamente per caso, per “ambientazione”… non è così, passava di lì davvero per caso, non l’avevamo mai visto prima e non l’avremmo mai più rivisto dopo: è stato uno degli “Incontri della Strada” più puri che conosca. Alla fine dell’incontro con lei, Romilda con un piccolo sospiro sorridente ci aveva come congedati dicendo: “Ecco, questa è stata la nostra gioventù, sono stati i nostri vent’anni. Per quel che potete, fate in modo che nessuno debba farne di uguali”.

    Lo ritengo un po’ un suo testamento spirituale, perlomeno quello dato a noi che quel giorno eravamo là con lei ad ascoltarla.

    Per quel che può contare, io spero e prego che il buon Dio la faccia ora riposare come merita, e magari le faccia anche incontrare il partigiano dalla faccia da bambino, il soldatino tedesco della banca, gli ebrei fuggiaschi ora tornati al Padre, tutte le Aquile Randagie sue amiche.

    Bruno
    Puma Esploratore

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